Un anello insolito all’interno del gruppo del Velino.


Siamo stati indecisi fino all’ultimo se uscire o riposare, l’unica certezza era ancora un week end con le condizioni meteo superlative a disposizione. Un’ escursione leggera sul Cava ed una invece entusiasmante ma certamente esasperata sul Cafornia passando per la Valle Maiellama e quella del Bicchero. Solo il calo di tensione degli ultimi tempi poteva mettere in competizione due progetti così dissimili tra loro, e non poteva andare diversamente da come è andata. Prima in quattro, con Giorgio ed Alessandro, poi un problema di lavoro ed uno di salute all’ultimo momento rimaniamo io e Luca. Abbiamo indugiato a trovare la giusta strada da Forme, abbiamo perso completamente l’indicazione dell’Agriturismo Camariso e ci siamo ritrovati a parcheggiare nello spiazzale del Rifugio Casale del Monte; il cielo era basso, grigio, buio ma non faceva freddo. Ci siamo potuti preparare con calma e alle 7 e 20 eravamo già pronti. Avanti a noi avevamo una grande escursione, lunga e faticosa con un dislivello parziale di 1300 metri e più di 15 km da percorrere, eppure il morale era altissimo. E l’inizio era di quelli che già da soli valevano il prezzo del biglietto: inoltrarsi nella valle delle aquile, inoltrarsi in quella spaccatura della roccia che corrisponde al nome di Valle Maiellama. Il sogno ed il progetto di sempre si stava avverando. Era una prima volta e devo dire che tutto mi era diverso da come mi ero immaginato. Con un’alba che tardava a prendere il sopravento, con la luce che non riusciva a filtrare in quella cappa di nebbia densa e bassa che incombeva su di noi, la feritoia nella montagna non più di cinquecento metri davanti a noi, sembrava l’ingresso dell’inferno. Non potevamo orizzontarci, tutto ci era vietato, anche le moli che incombevano su di noi, quella del Cafornia e della Sentinella ci erano nascoste; solo un imbocco buio in un budello di alti contrafforti che si perdevano nel plumbeo grigiore di un cielo dello stesso colore dell’orizzonte che avevamo davanti ci era dato intuire più che vedere. L’ingresso della Maiellama è imponente, una valle stretta, una vera ferita nella terra, un sentiero scavato sulle vie di fuga dell’acqua e subito una boscaglia bassa; le pareti che incombono a dettare la direzione. Oggi poi le condizioni erano a dir poco suggestive. Avrei voluto abbandonare lo sguardo alla ricerca, laggiù in fondo, della cresta di Costa Stellata da dove ho potuto ammirare per la prima volta l’intera valle Maiellama dall’alto e da dove sono partiti i miei sogni , ma tutto era negato. Il silenzio era assoluto favorito anche da un ristagnare assoluto dell’aria, pesante, umida, buia. Il sentiero è ben marcato con le solite bandierine bianco rosse ma di certo non esiste la possibilità di sbagliarsi. Tutto è vincolato dalla profonda ferita della terra. E lassù, tra le rocce, da qualche parte, quel famoso nido dell’aquila. Ma tutto era uguale, fermo nell’immobilismo della cupa nebbia che mostrava solo diverse tonalità di grigio a seconda di cosa ci fosse dietro la direzione del nostro sguardo. Non rimaneva che proseguire lungo il sentiero e lasciarsi andare alle sensazioni del momento. Passo dopo passo avevamo la sensazione di lasciare il mondo, dietro di noi l’imbocco della valle era solo un chiarore leggermente diffuso delimitato dai ripidi contrafforti delle montagne, davanti invece solo un indistinto ed evanescente nulla. Boscaglia bassa ed intricata l’unica presenza tangibile. Una sola certezza però era dentro di noi: che si trattasse solo di una questione di tempo che doveva passare e di altezza da guadagnare, prima o dopo le nebbie avrebbero lasciato il posto ad una sfolgorante giornata ed un cielo azzurro avrebbe incorniciato le rocce strapiombanti. Per il momento eravamo solo noi, il nostro respiro non affannoso, la valle all’inizio sale lentamente di quota, i nostri passi ed il profondo silenzio che ci inghiottiva. Presi come eravamo dall’ambiente, alle prese con i resti della nevicata trasformatisi in insidiose lastre di giaccio, dopo una mezz’oretta, forse più, di silenziosa e veloce marcia non ci stavamo quasi accorgendo di ciò che stava mutando intorno a noi, sopra di noi sarebbe stato meglio dire. Indistinti chiarori si stavano manifestando, nuvole sembravano, segno che le nebbie avevano ancora poca forza contro l’epica giornata che stava per nascere; poi a guardare meglio lo stupore dello spettacolo che aspettavamo si era fatto chiaro. Non erano nuvole, erano le creste delle montagne intorno a noi e da quel momento un susseguirsi di cambi di orizzonte, di colori, di visioni ora distinte ora di nuovo celate ci hanno costretto a camminare naso all’insù. Tutte le volte, l’ultima sempre più di tutte le precedenti, gli spettacoli che la natura ti offre sembrano i più belli di sempre; quante volte avremo fatto questo tipo di esclamazione noi amanti del camminare? Eppure, io, in una situazione come quella, era la prima volta che mi ci trovavo! Incassato nelle viscere della terra, intorno a me solo la sensazione di enormi dirupi e poi ora lentamente ora velocemente i confini del mondo che ti venivano mostrati; e poi nascosti e poi di nuovo palesati in uno scorrere di fiumi di nubi e squarci di azzurro e rosa delle rocce. Vedi , non vedi, mai una soluzione di continuità; le nebbie sembravano guidate da una mano di un mago; per minuti era un mulinare di immagini e di nebbie, ma tutto lasciava intuire la magnificenza della valle dove eravamo. Poi di colpo tutto è stato inondato di luce, come se il mago avesse aperto la porta e la finestra della parete opposta di una fantastica stanza, tutte le nebbie sono sfilacciate via e le ombre si sono dissolte in pochi istanti; un paesaggio di un selvaggio unico ci ha stregato. Intorno a noi erano solo creste alte, sprazzi di neve qua e la, una valla stretta e selvaggia davanti a noi ed un tetto azzurro accecante. Le speranze di una sfolgorante giornata si sono dissolte insieme alle nebbie e sono diventate entusiasmo, così come gli indugi del giorno prima nel programmare questa uscita sono diventati lezione per le prossime programmazioni. Tutto questo mulinare di immagini lo abbiamo cercato di catturare con le nostre macchine fotografiche, certi comunque che alcuni colori, alcuni toni percepiti in quei momenti potessero solo essere rivissuti dai nostri ricordi e dalle nostre emozioni di quei momenti. La valle davanti a noi era invasa di sole, ancora pochi passi e saremmo passati dal gelo della forra al calore della luce. Ora il sentiero si inerpica un po di più, si alza in un contrafforte che detta anche l’inizio della presenza di neve; una neve molle purtroppo che ci rallenta non poco. Si alza un vento fresco che ci costringe al rinforzo. Siamo a quota 1600 metri, la valle si apre verso orizzonti ampi fatti di creste e conche colme di neve. La montagna si mostra ora in tutta la sua esplosiva forza espressiva; quegli speroni che ci piombavano addosso ora si aprono, la cresta che nasce dalle pendici di Cimata di Fossa Cavalli forma un grande anfiteatro, stracolmo di neve fino allo sperone del Bicchero; è uno spettacolo elettrizzante. Sopra di noi invece è la dorsale della Costa Stellata che ora ci domina e che porta lo sguardo alla capanna lassù, sulla montagna di fronte, separata dalla Costa Stellata da un’altra valle secondaria, profonda ed incassata . E’ la capanna di ciò che rimane del rifugio Panei, è la Sentinella. Ci rimiriamo il mondo intorno al riparo di un grosso masso. E’ il momento di tirare il fiato; la neve inconsistente ci impedisce di avanzare agevolmente e le gambe cominciano a sentire i chilometri macinati. Ma davanti abbiamo ancora tanto da fare e da salire, lo sappiamo bene e la sosta che ci concediamo è breve. Davanti a noi un collinone segna la fine della Maiellama; siamo all’ingresso della valle del Bicchero. Larga, luminosa, completamente colma di neve che gradatamente porta lo sguardo e la traiettoria del sentiero sulla sella a destra del Bicchero. Grande lo spettacolo all’imbocco della Valle del Bicchero. Bella la salita alla sella, naturale, invitante, di li passa il sentiero, ma quella cresta alle pendici della Cimata di Fossa Cavalli, di quel grande catino immacolato, quei ripidi canaloni, bianchi, verticali infiammano la fantasia. Non ci facciamo tentare, Luca è determinato e intuisce meglio di me il percorso giusto. Seguiamo una crestina spolverata dalla neve e ci avviciniamo allo sperone che scende dal Bicchero. Ora la neve è più solida, ci tiene e possiamo camminare agevolmente. La prospettiva è quella di dover salire alle quote importanti e ce le abbiamo li davanti ormai; decidiamo di dotarci di ramponi quando ancora farlo rimane facile. Seguitiamo all’interno della valle verso la sella lassù in cima, propongo a Luca di salire a sinistra dello sperone della sella, una salita più breve e più ripida. Mi lascia l’iniziativa e non contento, quando siamo ormai in prospettiva della cresta mi stimola ancora di più proponendo una salita diretta sul fianco della montagna ancora di più alla nostra sinistra. C’era desiderio di arrampicata evidentemente; il pendio era ripido ma sembrava agile da affrontare fino in cima e non ho esitato ad assecondarlo. Il primo tratto affannoso e ripido ma aggredibile ci ha fatto commettere un grosso errore; non abbiamo pensato servisse la piccozza ed abbiamo continuato a salire con i bastoncini; da li a poco sono stati praticamente inutili. Il pendio si è inerpicato e la mancanza della sicura della becca si è fatta sentire. Solo i ramponi assicuravano la presa, le mani erano un appoggio. La verticalità del pendio rendeva inutilizzabili i bastoncini; un brutto quarto d’ora ci ha fatto avanzare lentamente, in affanno e con i gesti misurati. Giù era tutto sempre più verticale e la fine della salita una speranza. Luca era davanti a me di pochi metri ma era sopra di me, segno della verticalità incombente; ormai ognuno era da solo. Ho puntato degli speroni di roccia affioranti su cui potermi aggrappare e riposare ed è stata la mia salvezza. Ho ritrovato le forze; pochi passi ramponati ancora prima di sentire il pendio attenuarsi. Ricordo solo la bellissima prospettiva di Luca che avanzava di traverso su un pendio velenoso e dietro, esplosive e dirompenti nello sfondo di un cielo blu turchino, le prime creste del Velino. Nonostante la situazione instabile e di ansia ho voluto scattare delle foto. Era montagna, l’essenza della montagna racchiusa in una immagine. Ho seguito il traverso di Luca e lentamente il pendio si è attenuato. Ci sono voluti venti minuti per ritrovare il fiato e le gambe, quei venti minuti che ci hanno permesso di raggiungere lentamente la vetta del Bicchero. Ora tutto il gruppo del Velino era intorno a noi, 360 gradi intorno a noi, di magnifica verticalità, di creste, di valli, di 2000 da conquistare. Tante volte sono salito su queste creste, su questi monti, mai da questo versante; credo che solo salendo dalla Maiellama si riesca ad entrare nel profondo della morfologia del gruppo del Velino e solo individuando da questo versante le singole montagne si riesca a capire la geografia di questo complicato e vasto gruppo montuoso fino in fondo. La stanchezza spariva insieme al le emozioni che salivano; e l’adrenalina della salita si trasformava in voglia di arrivare lassù in cima. Una foto in vetta al Bicchero, uno sguardo alla cresta verso Cimata di Fossa Cavalli e decidere di getto le traiettorie da seguire. E’ stato tutto leggero salire fino alla cresta, distratti solo dai panorami che si aprivano con l’altezza che guadagnavamo. Nel punto di arrivo in cresta, Cimata di Fossa Cavalli era davvero a portata di pochi passi, una cresta sottilissima affascinante chiamava la nostra bramosia di calpestarla ma l’appuntamento era con il Cafornia che là, dietro l’ultimo dosso, spuntava con la sua rotonda cima. E’ stato davvero poco salire fino alla croce, una neve stupenda ghiacciata scricchiolava sotto le punte dei nostri ramponi, era musica mentre Luca, braccia al cielo, esaudiva il suo grande desiderio di completare il trittico del Velino. Un panorama infinito si presentava ai nostri occhi, le nubi lontane erano basse, il cielo limpido delle 13 accompagnava lo sguardo ovunque ed era facile riconoscere ogni spigolo di roccia elevato verso il cielo che delineava l’orizzonte . La bella croce, la madonnina gemella di quella del Velino, le tante foto scattate a comprendere tutto e tutt’intorno; eravamo sui 2427 metri del Cafornia e la valle laggiù, da dove eravamo partiti sembrava così lontana da temere il ritorno col buio. Ma era troppo bello stare lassù, in assenza di vento, con un clima ideale come ideale era l’infinito panorama che ci avvolgeva. Era bellissimo tutto questo ma avevamo ancora un appuntamento con un’altra vetta ed una discesa vertiginosa di più di 1300 metri da fare. Riprendiamo la dorsale di ritorno, per un breve tratto calpestando le nostre stesse orme, poi la crestina elettrizzante della Cimata di Fossa Cavalli ha catturato la nostra attenzione. Una parete sfuggente e ripida verso est ma con una neve solida, un bel salto dentro il calderone verso ovest ed una cresta, formata dal vento, immacolata e sottilissima. E’ stata più la vista dell’aerea configurazione ad impressionare che la conquista vera e propria; solo un breve tratto ci ha visto letteralmente a cavallo di una lama di rasoio ma era tutto così entusiasticamente perfetto che lo abbiamo passato di slancio. Sottile, aerea, pura la definirei questa cresta; l’abbiamo percorsa quasi tutta prima di buttarci nell’ultimo ampio canalone che dalla Cimata sprofondava dento il catino sottostante. Un traverso su neve ormai molle perché dominata dal sole a conquistare una crestina laterale ormai spoglia di neve ci permetteva di riposare all’asciutto e di consumare il nostro pasto di mezzo dì. Il sole era infuocato, riparati dal vento abbiamo dovuto alleggerirci immediatamente per evitare un riscaldamento perentorio. Ripreso il percorso siamo scesi sulla spoglia cresta finché si è potuto per una cinquantina di metri per ributtarci poi dentro l’infinita pagina che ci ha condotto velocissimi a fondo valle. Un susseguirsi di agili dune, studiate dall’alto ci ha permesso di raggiungere l’imbocco della discesa che ci avrebbe dovuto portare a “casa”. Un ultimo sguardo verso quel paradiso che ci ha riempito gli occhi e la testa per tutto il giorno prima di buttarci dentro la valle a cercare un qualche segnale che ci indicasse la via numero 7 . Tracce di sentiero individuate da lontano ci hanno favorito, tanto che abbiamo intercettato immediatamente i segnavia numero 7. Già, individuati e subito persi. Forse presi dall’euforia delle cose facili abbiamo pensato che la logica volesse il sentiero dentro la valle. Pensiero banale addirittura, peccato che la realtà fosse un’altra. Il sentiero numero 7, costeggiava il Cafornia, lo avevamo studiato, forse da li dove eravamo avremmo dovuto salire per un po’ il costone della montagna e forse a questo punto il nostro inconscio ci proibiva di pensare ad altre salite, insomma, per un motivo od un altro abbiamo intercettato il sentiero ed immediatamente lo abbiamo perso. Ci siamo trovati a seguire tracce di sentiero senza segnavia che ci hanno condotto all’interno della valle, così all’interno che lentamente ma inesorabilmente la valle è diventata prima un imbuto e poi una forra intricata. Vegetazione intricata, salti di roccia da aggirare dove possibile e da superare con l’uso della fantasia dove le pareti verticali impedivano l’aggiramento; il luogo più selvaggio di tutti quelli visitati, che ogni tanto faceva intravedere una valle lontana ancora ma paurosamente verticale sotto di noi. Ormai dentro questo budello completamente in ombra l’idea di risalire a cercare il sentiero ci terrorizzava, di roccia in roccia e di salto in salto scendevamo velocemente di quota ed ogni passaggio allontanava sempre di più la possibilità di risalita. Ogni tanto la forra si stringeva ancora di più, in alcuni tratti sembrava di una verticalità sconcertante tanto da farci dubitare sulla possibilità di continuare a scendere; la discesa stava prendendo i connotati dell’avventura imprevista e devo confessare che per diversi istanti ho rimpianto la decisione di non essere tornato indietro quando ancora era possibile. Ciò che mi sollevava erano labili segni di una sorta di sentiero che qua e la testimoniavano presenza di calpestio; ciò che mi sconfortava era l’idea che si poteva trattare di un percorso utilizzato da altri che come noi si erano persi. Ma lo sconforto è diventato ben presto un gioco; a fatica, di forza e di sudore, lentamente , si scendeva e i pochi momenti in cui si liberava la vista della valle, questa, era sempre più vicina. Ma più scendevamo e più questo budello si stringeva. Su di un salto ancora accessibile anche se a fatica, lo sguardo si perdeva dentro un imbuto sempre più stretto e sempre più delimitato da pareti ripide e inattaccabili. Quando l’ansia di riuscire a continuare cominciava a prendersi beffa di noi è Luca che nota sulla sinistra un chiaro segno di sentiero. Era la nostra ultima frontiera! Saliva deciso verso sinistra, verso la valle Maiellama per intenderci, saliva ripido e ghiaioso ma ci sembrava un’autostrada che ci si era spalancata davanti. Superiamo una spalla, poi un’altra e decisamente ci siamo trovati fuori dalla forra, così fuori che cominciamo a vedere la valle sottostante e poi il Casale punto della nostra partenza ed ora del nostro ritorno. Sbagliando sentiero ci siamo ritrovati a chiudere l’anello senza doverci assoggettare a spostamenti di ricongiunzione a valle. Il sentiero con ampi tornanti finisce per portarci quasi a ridosso della Valle Maiellama da dove potevamo godere ancora della vista degli stupendi balzi di roccia dell’ingresso della valle che ci erano stati negati la mattina. Ormai eravamo a terra, per pura curiosità mi sono portato davanti all’imbocco del budello che ci ha portato a valle ed era impressionante come si andasse restringendo sempre di più. L’idea che non ce l’avremmo potuta fare a scenderla tutta si è impadronita di noi così come la sensazione della scelta fortunosa che ci ha permesso prima di vivere una intensa e selvaggia avventura fuori programma e poi di cavarci dai guai proprio all’ultimo momento quando le cose si stavano complicando non poco. Per la cronaca la valle, poi diventata letteralmente forra selvaggia che sulla carta viene flebilmente vergata come Vallone Rieltello, è praticamente una valle ripidissima che scende parallela alla Maiellama e che nasce dal catino glaciale sotto i contrafforti del Cafornia e della Cimata di Fossa Cavalli. E’ facile cadere nell’errore perché lo sguardo, la logica, porta ad addentrarsi nella linea diretta verso valle e che conduce invece all’interno del budello. Il sentiero numero 7 , che conduce a valle, scontorna il Cafornia all’altezza della prima strettoia della valle, quando ancora i connotati della forra non sono nemmeno intuibili; risale leggermente la montagna, l’aggira per un po’ verso nord ovest atterrando a valle dolcemente un paio di chilometri più a nord del Casale de Monte. Insomma dalla forra si esce, ma occorre una buona dose di volontà per superare salti ed intrichi di vegetazione che dopo un percorso così lungo alle spalle potrebbero anche risultare indigesti. Il casale è proprio davanti a noi, mai “l’atterraggio” è stato così preciso, sudato, guadagnato ma incredibilmente centrato sull’arrivo. Erano le 15 e 30 di una giornata ancora caldissima. Troviamo il rifugio “Casale da Monte” aperto; ci viene incontro calorosamente Antonio, il gestore, che ci offre un caffè mai come in questo momento propizio. Ci fermiamo parecchio a parlare con lui, visitiamo il rifugio, una bella struttura rifinita dotata di 2 stanze da letto con 16 posti letto ciascuna ed un’ampia sala da pranzo. Ci vengono raccontate le difficoltà per portare avanti la struttura e tutte le imbecillità ambientali a cui devono sottostare a causa dei vincoli del Parco. Capiamo che ciò che intuiamo come uno dei pochi servizi che questo territorio offre viene visto dalle amministrazioni come un elemento deturpante che metterebbe a rischio addirittura la presenza dell’aquila. La stradina sterrata che porta dal paese fino al rifugio non può essere mantenuta mettendo a repentaglio non solo l’arrivo dei clienti ma addirittura quello dei rifornimenti di acqua e gasolio. Insomma solo la passione di Antonio Pavone permette l’esistenza di questo rifugio. Antonio ci racconta un aneddoto: è stato accusato di essere con la sua attività causa di criticità per la presenza dell’aquila sulle pareti della Valle Maiellama. Nessuno sa che la via che conduce fin li dal paese di Forme si chiama Via dei Carri Armati e questo perché in tempo di guerra durante il passaggio del fronte, la via fino all’imbocco della valle veniva usata dai carri armati per giungere in prossimità dell’imbocco della valle stessa e che questa veniva usata come poligono di tiro per le esercitazioni. L’aquila nidificava già sulle pareti della valle imperturbabile anche alle esplosioni delle cannonate. Ed oggi dovrebbe essere in pericolo per i purtroppo pochi avventori del rifugio. Così il simpatico e buon Antonio me l’ha raccontata, così ve la racconto io. Una chicca di umanità che ha arricchito non poco questa intensa, lunghissima e sorprendente giornata a contatto con una natura selvaggia all’apparenza ancora incontaminata. Uno degli angoli più selvaggi del nostro Appennino è a due passi dalle porte della nostra città, ma non ditelo troppo in giro, l’aquila se la potrebbe prendere a male!